Mallet e l'Italia
Il citì a ruota libera su torneo, progetti, giocatori e club. Elogio della mischia: «Con Cittadini e Staibano l’Australia non perdeva dagli inglesi»
Mallett: «Il Sei Nazioni per gli altri è solo un altro week-end, per noi la sfida della vita. Servono due selezioni per crescere».
«I risultati in Coppa del Mondo sono uno specchio del valore internazionale dell'Italia più realistico dei risultati dell'ultimo Sei Nazioni. Non capisco, quindi, il motivo di tanta delusione». Nick Mallett non è uno che le manda a dire. Cultura, conoscenze rugbistiche, passato e modo in cui ha allenato Springboks, Stade Francais, Boland e Western Province parlano per lui. Con questo approccio schietto e appassionato ha deciso di affrontare la nuova esperienza di allenatore dell'Italia. Lo ha dimostrato meeting pre-Sei Nazioni con i giornalisti veneti, tradizione iniziata ai tempi di John Kirwan citì, tenuto in settimana.
Dove Claudio Da Ponte, anima della rivista "Rugbyclub", l'ha paragonato entusiasticamente a Julio Velasco per competenza, brillantezza e capacità di coinvolgimento. Da sabato 2 febbraio, debutto nel Sei Nazioni a Dublino, vedremo se l'Italia del rugby avrà davvero trovato il suo Velasco, com'è successo negli anni '80-90 a quella del volley.
Il Mondiale allora è il vero specchio dell'Italia?
«Sì, perchè battere Scozia e Galles con questa base da cui attingere per la Nazionale è incredibile. È un miracolo».
Cosa intende per base?
«L'Italia oggi ha un XV di livello internazionale, con ruoli carenti come la mediana, e dietro pochi ricambi. Se nel torneo avremo grossi infortuni sarà difficile mantenere la competitività. Peccato, perchè nei miei giri per l'Italia ho visto gente potenzialmente da Sei Nazioni, ma che non gioca stabilmente nel club. E senza continuità non si alza il livello».
Qualche nome?
«Alberto Sgarbi, Andrea Marcato, Paolo Buso. Purtroppo nel Super 10 giocano ogni giornata 90 stranieri e 60 italiani. Sarebbe meglio scendessero in campo più italiani e meno stranieri di più alta qualità. Italiani sui quali ho deciso di puntare nelle scelte azzurre, a meno che lo straniero di pari ruolo non faccia davvero la differenza».
Per alzare il livello lei ha detto che servono le selezioni.
«Per il vostro sistema di rugby, simile a quello del Galles dove già ci sono, sono l'unica strada. Bisogna concentrare i 60-70 migliori giocatori italiani in due selezioni professionistiche, chiamate che so, Romans e Venetians. A questi aggiungere massimo 3 stranieri di qualità ciascuna e più italiani possibili che ora giocano all'estero, dove hanno già fatto il salto di qualità. Con queste due selezioni, pagate e gestite tecnicamente dalla federazione, si potrebbe competere con le squadre migliori d'Europa nelle coppe e in tornei tipo la Celtic League. Il livello dei giocatori italiani crescerebbe di sicuro. Ai club sarebbe affidata l'attività inferiore, di livello amatoriale e nazionale (il campionato, ndr)».
Un progetto lineare sulla carta, difficile da realizzabile in pratica, per problemi di soldi e di conflitto con i club.
«I soldi in qualche modo la federazione li deve trovare. Avete gli incassi del Sei Nazioni, degli sponsor, delle coppe, delle tivù. Metteteli insieme e, se non basta, cercate altre risorse. Sul discorso dei club è vero. Quanto ho detto è il meglio per l'interesse del citì della Nazionale, so bene che non è il meglio per l'interesse di Treviso, Rovigo o Calvisano».
In attesa di sviluppi strutturali nel movimento, su cosa punta per far bene il Sei Nazioni e ripetere i "miracoli" di Berbizier?
«Su un pacchetto di mischia fra i migliori a livello internazionale. Sono convinto che se l'Australia avesse avuto come piloni non le nostre prime scelte, ma Fabio Staibano e Lorenzo Cittadini, non avrebbe perso la semifinale al Mondiale con l'Inghilterra. Poi sul cuore, sul carattere, sull'orgoglio modello Argentina».
Cosa intende per orgoglio argentino?
«Quello mostrato ai Mondiali. Quando allenavo a Parigi, prima di uno Stade Francais-Clermont decisivo, sentivo Mario Ledesma e Austin Pichot parlare solo e in continuazione dei Pumas al Mondiale '99, non del campionato francese. Avevano il cuore e la testa lì, anche se il portafoglio glielo riempiva lo Stade. Gli italiani devono avere la testa e il cuore puntati sempre al Sei Nazioni. Per i giocatori esteri, abituati a grandi scontri ogni settimana in Premiership, Top 14 ed Heineken, il Sei Nazione è solo un altro week-end. Per gli azzurri deve essere ogni volta la partita dell'anno, della vita. Come è successo all'Argentina in World Cup. Non a caso è arrivata terza, stupendo il mondo».
Ivan Malfatto
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